L’alcol e I migranti

DIVULGAZIONE E INFORMAZIONE

Sul consumo di sostanze psicotrope da parte delle persone adulte migranti nel nostro paese, vi sono molte discussioni ancora aperte, in quanto di fatto non si hanno dati certi sulle persone migranti assistite dai Servizi Sanitari di riferimento.

Molto spesso, infatti, si è di fronte ad una popolazione per lo più in una condizione irregolare e quindi “nascosta” e sfuggente ad un controllo epidemiologico quantitativo.

Migranti

Negli ultimi anni assai diffusa nella popolazione migrante è l’assunzione sregolata di alcol in quanto, grazie alla sua facile reperibilità, alla sua accessibilità economica e alla sua accettazione sociale, può costituire una sostanza sostitutiva di altri stupefacenti o può risultare un notevole potenziatore degli effetti delle droghe illegali.
Il consumo/abuso di bevande alcoliche, discorso estendibile a tutti i fenomeni sociali, non può essere ricondotto ad un’unica causa. Occorre partire dal presupposto che la condizione di dipendenza varia da persona a persona, anche sulla base della compresenza di complessi e variabili fattori di ordine biologico, psicologico, sociale e culturale che interagiscono in maniera dialettica tra loro.
Per comprendere maggiormente l’ambivalenza della funzione dell’uso di alcol è indispensabile un’analisi del contesto sociale e culturale; storicamente vengono messi in evidenza i valori nutritivo, farmacologico, rituale e socializzante (in riferimento a quest’ultimo la funzione di indurre modifiche del comportamento per cui si ricorre all’alcol con lo scopo di intervenire sulla sfera delle relazioni interpersonali).[caption width=”285″

LE CARATTERISTICHE DELL’USO ALCOLICO TRA LE POPOLAZIONI MIGRANTI

Consumo alcolico tra i migranti in Italia

La sostanza che risulta principalmente consumata dalla popolazione adulta migrante è l’alcol, che appare trasversale a tutte le popolazioni.
Altre sostanze sono: cocaina – crack, soprattutto per quanto riguarda le persone che vivono in strada. Da un punto di vista socio culturale, va fatta una distinzione tra gli adulti migranti appartenenti al primo esodo di massa avvenuto nei primi anni ’90, quando il processo di acculturazione risultava meno sviluppato, rispetto ai migranti a partire dal 2000 ad oggi.
Per i primi la cultura di provenienza riveste un ruolo maggiormente importante nella definizione della relazione terapeutica e nella lettura dei bisogni, rispetto alle generazioni nate nel nostro paese o appartenenti a fenomeni di recente immigrazione.
I fenomeni migratori internazionali innescano mutamenti sociali e trasformazioni culturali, economiche, politiche che comportano, per le istituzioni e per la società civile, sfide di importanza e di priorità cruciale.
Se si tenta una mappatura delle caratteristiche delle opzioni comportamentali degli immigrati rispetto alla sostanza, in Italia, emergono due dinamiche generali di rapporto con le sostanze:

  1. Il consumo di sostanze fa parte della quotidianità del migrante già prima di lasciare il paese d’origine:
    – si intensifica nel contesto di immigrazione, configurandosi come dipendenza vera e propria;
    – si arresta/si attenua nel contesto di immigrazione;
  2. Il consumo di sostanze è appreso o subisce una significativa trasformazione nel contesto di immigrazione:
    – processo di integrazione nella società locale: es. consumo moderato di alcolici da parte di musulmani;
    – forma di integrazione ‘verso il basso’ per inserirsi nel gruppo dei pari da parte di giovani immigrati cresciuti ed educati in Italia per buona parte dell’adolescenza;
    – sfogo/reazione a condizioni di frustrazione/alienazione/disagio, come forme di consumo ricreativo-sociale di alcolici da parte di immigrati di provenienza latinoamericana-andina che sfocia in alcolismo cronico.

L’esempio peruviano

Diversi sono i soggetti che bevono, diverse le culture e le percezioni che esse sviluppano del bere e diverse, pertanto, le motivazioni. In un processo di avvicinamento e di comprensione del fenomeno dell’alcoldipendenza tra immigrati, è fondamentale partire dalla concezione del bere nel paese di provenienza per chiedersi quali significati queste sostanze assumono nella cultura del paese di origine, e se vengano tollerate oppure bandite. In modo diffuso però, come si legge da analisi specifiche, il migrante si trova “né totalmente presente là dove è presente, né totalmente assente là dove è assente”.
L’ “integrazione” che viene offerta spesso, è meramente economica sul piano del mercato del lavoro e della partecipazione all’uso di beni di consumo, ma è carente dal punto di vista affettivo e sociale.
Il progetto migratorio, così carico di valenze emotive, diventa spesso un percorso obbligato, con un unico senso di marcia, il cui fallimento, reale o immaginario, prefigura il rifiuto e l’esclusione, sia nel paese d’arrivo che in quello di provenienza. Non si devono, quindi, sottovalutare le condizioni psicologiche e la vulnerabilità psichica che, di fronte alle difficoltà del passaggio e insediamento migratorio, possono indurre il soggetto ad abusare di sostanze ed alcol.
Prendendo ad esempio il consumo di alcol in Italia da parte della popolazione peruviana, esso appare legato alle seguenti motivazioni:
Si beve per dimenticare quello che si è perso “lungo il percorso migratorio” a livello familiare, sociale e professionale. Molte persone che arrivano dal paese di origine con un bagaglio culturale medio-alto, vivono “un’ involuzione” dal punto di vista professionale, non essendo riconosciuti, nella società ricevente, i titoli di studio acquisiti o le professioni praticate nel paese di origine. Questo aspetto comporta una sofferenza causata da un crollo dell’autostima, da una perdita della propria identità e dalla difficoltà di definirne una nuova che può sfociare nel ricorso ad un consumo alcolico problematico.
Il bere nel paese di origine ha funzioni aggregative importanti, ma tale pratica inserita in un contesto in cui vengono a mancare i punti riferimento che nel paese di origine fungono da “controllo” (quali ad esempio la struttura familiare, le reti sociali, il lavoro, le tradizioni culturali), può incrementare la tendenza a un uso farmacologico dell’alcol e a problematiche di abuso, con una sorta di effetto “sommatorio”.
L’abuso di alcol viene riferito soprattutto per gli uomini, le cui motivazioni appaiono strettamente connesse alle condizioni di vita in cui si trovano:

  1. Il cambiamento del ruolo dell’uomo all’interno del nucleo familiare determinato dai processi migratori, vede la figura maschile assumere una funzione subalterna talvolta alla donna, che si inserisce nel mondo del lavoro
  2. La difficoltà di ridefinire una nuova identità in un contesto in cui vengono a mancare i punti di riferimento sociali, familiari e culturali può portare ad un uso dell’alcol come sedativo rispetto a vissuti di alienazione da una realtà in cui non ci si riconosce più
  3. La mancanza di contesti aggregativi e di socializzazione pari a quelli del contesto originario, rende il soggiorno nel paese ospitante solitario e frustrante
  4. Il forte stress lavorativo causato da lavori spesso estenuanti e molto faticoso

Le donne non riscontrano motivazioni simili a quelle degli uomini.  Anche se il problema viene comunque percepito dagli addetti ai lavori, in quanto la condizione della donna migrante è molto complessa perché spesso si ritrova costretta a vivere nella totale indifferenza. Da queste ipotesi, si deduce una difficoltà maggiore di accesso ai servizi, accompagnato ad un senso di vergogna molto forte.

Da un punto di vista antropologico

Secondo ricerche etnopsichiatriche è importante considerare le differenze culturali delle popolazioni migranti sia per cogliere il significato che la sostanza può assumere nella vita della persona, sia per stabilire su quali paradigmi di salute e malattia si debba lavorare nella presa in carico del migrante.
In riferimento alla società contemporanea, diversi approcci hanno tentato di delineare le funzioni del bere evidenziando alcuni fattori:

  • il valore sociale dell’alcol quale strumento di sollievo capace di ridurre l’ansia provocata dalle difficoltà dell’esistenza materiale, nonché strumento di soddisfazione di bisogni di dipendenza e mezzo di coesione del gruppo;
  • gli aspetti storici e culturali dell’abuso di bevande alcoliche, aiutano a comparare i modi utilizzati dalle diverse società nell’affrontare problemi connessi all’alcol.

Lo studio della funzione dell’alcol nei vari contesti culturali ha condotto ad una articolazione delle culture secondo un continuum: da culture astinenti, ad ambivalenti, fino ad arrivare a culture permissive (modello italiano, spagnolo, portoghese ed ebraico) e culture ultrapermissive.
Tutti questi approcci e modelli condividono l’idea che per comprendere più approfonditamente le molteplici dinamiche culturali e le numerose funzioni sociali attribuite alle pratiche del bere, non è sufficiente la visione talvolta parziale del modello biomedico.
Una prospettiva socio-antropologica permette, in modo efficace, di focalizzare ed interpretare le culture del bere, che sono strettamente legate alle condizioni materiali e al contesto socio-culturale in cui si collocano.
Diverse ricerche e studi transculturali sulla pratica del bere hanno tentato di individuare significative generalizzazioni sintetizzabili in alcuni punti:

  • il problema “alcol” nell’immigrato appartiene ad una sfera di marginalità e sradicamento;
  • il bere dello straniero è considerato molto simile a quello dell’italiano;
  • la solitudine ed i problemi inerenti la sfera relazionale sono le principali caratteristiche e le motivazioni che gli operatori attribuiscono all’immigrato con problemi alcol correlati;
  • l’abuso di alcol si manifesta sia a livello individuale (principalmente per le donne) che di gruppo, soprattutto nelle fasce orarie serali e durante i fine settimana;
  • la cultura italiana, in particolare, è una “cultura del bere” che facilmente aiuta nella socializzazione di gruppo;
  • non c’è ammissione del problema, esso viene minimizzato, nascosto; il lavoro degli operatori è farli arrivare alla consapevolezza della necessità di cure;
  • la mancanza frequente di una rete familiare ed amicale, negli stranieri, è spesso la causa di un ritardato contatto con le strutture di cura e dei fallimenti dei programmi terapeutici.
Approccio transculturale alla cura

Oggi, ancor più degli anni passati, è necessario un approccio transculturale che vada incontro ai nuovi bisogni, che sappia ascoltare ed accogliere individui con problemi di dipendenza appartenenti a gruppi minoritari presenti in Italia.
L’aspetto che viene evidenziato sempre con grande forza è l’importanza di lavorare in rete, con équipe anche multidisciplinari che coinvolgano le figure di mediatori culturali specializzati.
Occorre perciò, anche sulla scia dell’esperienze di altri paesi, creare, nell’ambito dell’interculturalità e dell’organizzazione dei servizi pubblici e privati, interventi di prevenzione e di trattamento che siano culturalmente sensibili. Gli interventi terapeutici dovrebbero abbandonare un atteggiamento di tipo assistenzialistico o paternalistico e, oltre a dare un’attenzione più propriamente clinica, rivolta all’introspezione personale, è estremamente importante che pongano attenzione a problematiche culturalmente connotate, a incomprensioni dovute alla diversa lettura culturale dei contesti sociali, a smarrimenti di identità culturale dell’utente “altro”.
Ciò implica per gli addetti ai lavori la messa da parte di un certo etnocentrismo culturale e l’adozione di un nuovo mondo di valori, significati e codici culturali.
Nel dibattito attuale, si avverte la necessità di realizzare progetti basati sul coinvolgimento delle comunità locali a partire da quelle di appartenenza culturale dei soggetti stranieri, favorendo processi e legami di appartenenza mediante reti relazionali.
Non vanno trascurati,  però,  diversi rischi che, secondo alcuni, potrebbero essere rappresentati da un eccessivo processo di “culturalizzazione” dei servizi e degli interventi; processo che può produrre discriminazione e scoraggiare il coinvolgimento delle minoranze nei processi terapeutici: la promozione dei servizi “dedicati” e diversificati infatti è vissuta, come accentuatrice di discriminazione tra utenti stranieri ed italiani, e come ghettizzante. Il rischio connesso alla culturalizzazione della malattia e del disagio, nel nostro caso della alcoldipendenza, può essere, nel rappresentare le caratteristiche generali di una popolazione, quello di creare un’immagine stereotipata e naturalistica (l’immigrato dell’Est Europa abusa di alcol, il maghrebino spaccia, ecc. ) che non corrisponde alla realtà e che appiattisce e congela la soggettività in categorie etniche rigide, riduttive, statiche, fisse.
Riportando le parole di Riva: “È necessario indagare particolarmente bene a quale tipo di disagio afferisce la dipendenza in un utente straniero, a quale bisogno o sofferenza fornisce un surrogato di risposta, per non intervenire con una risposta standard che rischia di far sentire alla persona di non essere stato né compreso né ascoltato” .
Nella terapia dunque vanno tenuti costantemente sotto controllo alcuni punti:

  • la regolarizzazione non comporta automaticamente l’uscita dalla marginalità sociale e quindi da un percorso di alcol dipendenza;
  • i fattori di tipo psicologico, legati ad esempio, al grado di soddisfazione verso il progetto migratorio, che è strettamente connesso alle aspettative, personali e familiari, antecedenti all’espatrio, nonché alle possibilità concrete della sua realizzazione nel paese d’arrivo;
  • processi come l’apprendimento di una lingua, di codici comportamentali, di norme e valori differenti, possono isolare ed emarginare, ed in assenza di un sistema sociale e familiare di riferimento, tali situazioni possono portare abbandono e disorientamento, crolli psicologici e sentimenti fallimentari.
Per visionare i progetti svolti dall’Associazione Aliseo in merito al tema alcol e migranti

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI